In una celeberrima sequenza del film “Così parlò Bellavista”, l’indimenticabile ingegnere/filosofo, Luciano De Crescenzo, nei panni del Professore Bellavista, sviluppa una mirabile argomentazione agli allievi della sua improvvisata Stoà:
“In sostanza, gli uomini si dividono in uomini d’amore e uomini di libertà, a seconda se preferiscono vivere abbracciati l’uno con l’altro oppure preferiscono vivere da soli per non essere scocciati. Gli uomini d’amore non hanno bisogno di spazio: fosse per loro vivrebbero sempre abbracciati l’uno con l’altro. Come si fa a riconoscere se un uomo è o non è un uomo di libertà? È semplicissimo: l’uomo di libertà preferisce l’albero di Natale; l’uomo d’amore invece preferisce il Presepe. Gli uomini di libertà amano farsi la doccia, gli uomini d’amore invece preferiscono farsi il bagno: la doccia è milanese perché ci si lava meglio, consuma meno acqua e fa perdere meno tempo; il bagno invece è napoletano: è un incontro con i pensieri, un appuntamento con la fantasia” .
Appare evidente che, noi napoletani come campani e meridionali siamo “uomini d’amore”. Pertanto, possiamo giustamente affermare che, l’epidemia di Covid-19 (almeno finora) ha dimostrato e ci ha insegnato qualcosa. In primo luogo, la serietà dei napoletani nel mantenere il rispetto del distanziamento individuale (secondo chi scrive non è opportuno parlare di distanziamento sociale). Per una popolazione fondamentalmente “anarchica”, insofferente alla disciplina ed all’imposizione di regole precise da rispettare, che vive gran parte del suo tempo per strada, non è cosa da poco.
Abbiamo dimostrato all’Italia ed al mondo intero che non siamo così indisciplinati, bensì persone serie e responsabili. In Africa, le tribù Xhosa, gruppo etnico di origine bantù, utilizzano il termine “ubuntu” che, letteralmente, significa “io sono perché noi siamo“. Ora, mai come in questa pandemia, è stato dimostrato che, noi esseri umani, sopravviviamo soltanto se interconnessi. Non già attraverso social o altre amenità, bensì se abbiamo la capacità di fare comunità e di aiutarci l’un l’altro.
È invalso l’uso – tra noi meridionali – di effettuare i cd. “viaggi della speranza” andandoci a curare spesso al Nord. Senza negare come il sanitariamente attrezzatissimo Settentrione si sia trovato ad affrontare una tragedia di dimensioni bibliche, è altrettanto vero che – a livello mondiale – l’ospedale celebrato dalla stampa internazionale è stato il Cotugno di Napoli, vero e proprio centro di eccellenza. Peraltro, fino a poche settimane fa non contava infettati tra il personale sanitario, medico e paramedico. Come pure il protocollo terapeutico introdotto dal ricercatore irpino, l’oncologo Paolo Antonio Ascierto, a base di Tocilizumab, è risultato uno dei più efficaci.
L’epidemia di Covid-19 ci ha mostrato quelli che sono gli eroi della quotidianità: medici, infermieri, ricercatori in prima battuta; ma anche farmacisti, appartenenti alle forze dell’ordine, militari, sacerdoti, autotrasportatori, magazzinieri, impiegati dei supermercati. Sono questi il volto dell’Italia che lotta con tutte le proprie forze contro il terribile mostro, non già coloro che discettano dell’effimero e che, in verità, in questo drammatico frangente, hanno avuto assai poco da scrivere e condividere!
Altra lezione: la civiltà dell’amore. Tanti tra noi avranno impresse per sempre nella propria memoria, le immagini terribili delle sepolture nelle fosse comuni di New York. Quasi fossimo nel XVII secolo e non già nella terza decade di quello digitale del secondo Millennio. Eppure abbiamo sempre guardato agli USA come ad un modello da inseguire.
Come poi dimenticare la strage silenziosa degli anziani, trasportati agli inceneritori crematori sui camion dell’esercito? Se ne sono andati via sommessamente, con la stessa discrezione ed umiltà con la quale avevano vissuto una esistenza fatta di lavoro, privazioni, sacrifici. Scompare, con essi, una parte consistente di quella generazione che aveva visto e ricordava la Seconda Guerra Mondiale, il dolore, la morte, la paura, le privazioni. Se ne vanno via, con essi, mani indurite dai calli, volti segnati da rughe profonde, dovute alle giornate passate a lavorare sotto il sole cocente; mani che hanno spostato macerie, impastato cemento, piegato ferro, con la canottiera ed il cappellino di carta di giornale.
Mani che hanno ricostruito l’Italia, che hanno affrontato alluvioni e terremoti, che hanno lavorato sodo spezzandosi la schiena. La generazione della Lambretta, della Fiat 500 e 600, dei primi frigoriferi, della televisione in bianco e nero. Erano gli uomini e le donne del “boom economico” degli Anni ’60 del secolo scorso, coloro che ci hanno lasciato in eredità quel benessere di cui abbiamo approfittato impunemente.
Ci hanno insegnato tanto: l’onestà, la comprensione, la pazienza, la resilienza. Sono andati via soli, in silenzio, senza un ultimo bacio, una carezza, un saluto, un abbraccio. Dobbiamo tanto agli anziani, alle generazioni che ci hanno precedute, quella dei nostri nonni e dei nostri genitori, cui non saremo mai abbastanza grati. Eppure, questa strage d’innocenti si è perpetuata più a Nord che al Sud: sarà perché qui da noi le Rsa meno diffuse, sarà perché abbiamo ritmi di vita meno frenetici, sarà perché sui nostri territori si cerca, fin quando possibile, di tenere accanto i nonni o gli anziani genitori. Sia come sia, anche in questo caso l’amore sembra aver trionfato sulla libertà!
Chiudiamo con un assunto di grande attualità, checché ne pensino alcuni politici nostrani: i migranti ci servono! La primavera è giunta, come ogni anno, indifferente al dramma umano e per nulla intimorita (o condizionata) dal Coronavirus. Con il trionfo della natura, le rondini sono tornate a garrire, i fiori sono sbocciati, belli e rigogliosi come sempre, la terra coltivata ha dato i suoi frutti. E qui viene il bello. Molti dei nostri governanti invitano a tornare a privilegiare il consumo di prodotti agricoli italiani (una sorta di ritorno all’autarchia del Ventennio). In molte zone del Belpaese però, l’epidemia da Covid-19 ha fatto sparire i braccianti immigrati, ragion per cui non c’è la manodopera per raccogliere le colture che, tempo qualche mese, andranno al macero, perdute per sempre.
Sarebbe forse il caso che il Legislatore italiano, con l’assenso della “Fortezza UE”, prendesse seriamente in esame la possibilità di modificare i termini della concessione del permesso di
soggiorno per calamità naturale, previsto dal “Testo Unico sull’immigrazione” e finanche dal
Decreto Sicurezza del primo Governo Conte. In tal modo, si potrebbero fare uscire dal limbo in cui sono giocoforza relegati tantissimi migranti, dando nel contempo la possibilità di non vedere svilito e vanificato il lavoro degli agricoltori, nonché privando la popolazione italiana dei prodotti freschi della propria terra. Ma, anche questo, dovrebbe – prim’ancora che un provvedimento legislativo – essere un atto d’amore nei confronti di esseri umani, di lavoratori e del nostro Paese.
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GIANCAMILLO TRANI Vice Direttore della Caritas diocesana di Napoli