Siamo ormai entrati nella cd. “Fase 2” da quando è scoppiata l’epidemia da Covid-19. Sarebbe a dire la fase della ripartenza delle attività produttive ed un primo, timido, passo verso un parziale ritorno alla normalità. Purtroppo, come ci dice l’esperienza quotidiana dei nostri servizi territoriali, e come emerge – con chiarezza – a livello nazionale, gli effetti sull’economia e sul lavoro del Covid-19 si stanno espandendo a perdita d’occhio, lasciando dietro di sé una scia di precarietà, incertezza sul futuro e tanta, tanta preoccupazione. Il repentino peggioramento delle condizioni economiche di molte famiglie nel ns. Paese rischia, infatti, di far precipitare nella povertà moltissime persone, se non giungeranno – per tempo – sostegno economico o misure di accompagnamento per tutte le persone colpite.
Come argutamente ha di recente scritto il sociologo Massimo Conte in un suo approfondimento, “Migranti in regola, regolari, da regolarizzare. Siamo uomini o stranieri? “. Eccone un estratto:
“Un Paese, l’Italia, che paga decenni di arretratezza culturale, produttiva, economica, sociale, soprattutto legale, essendo corruzione ed illegalità, come l’abnorme evasione fiscale, capaci di collocarci ai primi posti in Europa.Viviamo, dunque, questi accadimenti improvvisamente urgenti in un periodo storico saturato, sospeso, “vuoto”, in apnea, reclusi per non esser l’uno untore dell’altro, scandito in tempi claustrofobici da un virus biologico pandemico che non è un “killer”, non è un nemico, non è in guerra, soprattutto non è pensante, ma un agente virale chiuso come altri centinaia in un luogo chiamato ”natura”. Il salto di specie è avvenuto grazie ai nostri maldestri, irresponsabili comportamenti, prodotto dell’occupazione invasiva di territorio, che il modello capitalistico acquisitivo di distruzione delle risorse del pianeta produce, con la progressiva desertificazione delle terre, lo scioglimento di ghiacciai eterni, l’innalzamento delle temperature del globo terracqueo”.
“In questo tempo dell’eccezionalità, speranzosi per una presunta normalità distruttrice dove “non tutto andrà bene”, ritorna centrale il tema della caducità della carne e del corpo umano, fragile, indifeso, mortale, che rimette in discussione certezze sociali e culturali, psicologiche ed affettive, distrugge migliaia di vite, ma sono sovente anziani tanto ormai mancava poco …, e produrrà milioni di disoccupati con conseguenti rivolte disordini conflitti sociali. Essendo questo virus tutto fuor che un livellatore di disuguaglianze economiche e sociali, perché i ricchi si stanno già arricchendo di più. Ma siamo proprio sicuri che parliamo di tutti i corpi che formano ciò che viene denominato corpo sociale? Oppure i corpi che abitiamo si differenziano a seconda di ruolo, status sociale, denaro, network relazionali in cui siamo inseriti, e del posto che siamo in grado di occupare nella scala sociale del consesso umano?”.
Il mio lavoro mi consente di tastare il polso a molte situazioni di disagio e, negli ultimi tempi, una delle domande che mi sento ripetere spesso è: ”Ma Napoli ce la farà?”. Non è facile fornire una riposta a questa domanda, ma ci proverò nel tentativo di dare una speranza ai lettori. “Siehe Neapel und stirb!” (vedi Napoli e poi muori). Questa frase, attribuita al noto letterato tedesco Johan Wolfgang von Goethe, fa da corollario ad una lunga visita alla città partenopea che lo scrittore compì nel XVIII secolo. Nel suo viaggio – lui freddo tedesco – apprezzò la città, la sua bellezza, la sua gente, il clima, i monumenti e la sua storia.
Napoli è una tra le città più antiche al mondo, bellissima e – per certi versi – maledetta. È un luogo incantato, dove si mescolano fede e magia, superstizione e religiosità popolare, miseria e grande ed antica nobiltà. Una città obliqua, dal cuore antichissimo, capitale del Mediterraneo: conserva vestigia di ogni tipo, greche, romane, egiziane, templari, normanne, sveve, angioine, aragonesi. Napoli nobilissima e Napoli lazzarona, castelli, fortezze, palazzi nobiliari da un lato, i celeberrimi “bassi” ed i rioni popolari dall’altro. Un popolo – quello napoletano – dal cuore grande e generoso, ma refrattario a qualsivoglia disciplina ed insofferente a qualunque autorità.
Quella partenopea è la città dei luoghi comuni: quelli naturalistici (il sole, il mare, il Vesuvio); gastronomici (la pizza, la sfogliatella, ‘o babbà, i maccheroni, il ragù, la genovese); ludici (la canzone classica, i fuochi d’artificio, l’artigianato presepiale, il mandolino, la rinomata sartoria (“La migliore al mondo!”, secondo l’autorevole Financial Times) con la tipica “spalla” alla partenopea, le tasche a toppa, la giacca “a mappina”. La Napoli di San Gennaro Martire (che napoletano non era, canonizzato dalla Chiesa) e quella di Diego Armando Maradona (argentino, che proprio santo non è stato, benché canonizzato dai napoletani) e la squadra del Napule (la città felice). “Gomorra”, le stese della malavita, la droga, il pizzo, gli scippi e le rapine, la monnezza, il colera, il terremoto, Scampia (la città infelice).
In mezzo al guado un popolo – quello partenopeo – avvezzo a disimpegnarsi tra mille e una difficoltà. Un popolo che ha fatto di necessità virtù in ossequio all’eduardiano “Adda passà ‘a nuttata” (ma questa notte passerà mai?). Un popolo che ha fatto dell’arte di arrangiarsi la propria bandiera, nel vano tentativo di rovesciare le avverse fortune del proprio, ineludibile, destino. Anche e soprattutto attraverso il gioco, in particolare quello del Lotto: numeri e nummarielli, sogno e cabala, capuzzelle ed anime pezzentelle, interpretazione di eventi insoliti e misteriosi, “assistiti” e quotidianità. Napoli città a strati, non soltanto architettonicamente, sovrapposizione su sovrapposizione, pietra su pietra, stile su stile, ma anche socialmente. In uno stesso palazzo, operai ed artigiani ma – al primo piano nobile – il titolato discendente d’una illustre casata nobiliare; i “chiattilli” del Vomero contrapposti ai “tamarri” del Centro Storico.
Napoli milionaria e Napoli stracciona, città da sempre sospesa in una sorta di limbo i cui confini si fanno via via più sfocati. Come pure risulta difficile definire cosa sia realmente legale e dove confini, viceversa, con l’illegale. Napoli definita e bollata, sovente, come ignorante, ma in realtà sede di ben cinque atenei. Patria, spesso adottiva, di illustri intellettuali (Giovan Battista Della Porta, Gaetano Filangieri, Antonio Genovesi, Benedetto Croce). Questa è la Napoli che conosciamo, con tutte le sue contraddizioni: una città spesso martoriata da epidemie, convivente con virus e batteri di varia specie, che – nella terza decade del secolo digitale – si è ritrovata a fronteggiare una nuova minaccia, costituita dal Covid-19.
Al tirar delle somme, una città eclettica e “vulcanica” nel vero senso della parola, che forte d’una filosofia millenaria ed avvezza a districarsi tra mille difficoltà, si trova ora ad affrontare un nemico invisibile e letale. Tornando alla domanda di cui sopra – a giudizio di chi scrive – Napoli ce la può fare se saprà elaborare le sfide del Coronavirus. Il dolore di chi ha perso un famigliare senza neppure poterlo salutare, l’angoscia di chi ha perso il lavoro e fatica ad arrivare a fine mese, il peso di chi ha tenuto chiusa la propria attività per tanto tempo e non sa ancora come e se riaprirà, i ragazzi ed i giovani che non hanno potuto seguire regolari lezioni a scuola, i genitori che devono, con fatica, prendersi cura dei figli rimasti a casa tutto il giorno, la ripresa economica che parte da un impoverimento generale…
Tutti noi vorremmo lasciarci alle spalle questa brutta parentesi, mettendoci mente e cuore ma, purtroppo, non è una parentesi! Pensare di tornare allo status quo ante Covid è una bestemmia, una ingenuità, una follia. Tutto ci parla e ci suggerisce il cambiamento: la società che ci sta alle spalle non era “la migliore delle società possibili” , era una società fondata sull’individuo, pensabile al di là delle proprie relazioni. Il forzato isolamento dovrebbe averci fatto comprendere e riscoprire il senso di comunità, con annesso l’interesse di tutti alla realizzazione del bene comune. Abbiamo il dovere di pensare ad una società diversa, che riscopra la comunità degli umani, l’essenzialità, il dono, la fiducia reciproca, il rispetto della terra.
Forse oggi possiamo guardare al Covid-19 come stimolo per sognare e costruire una società nuova.
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Giancamillo Trani, Vice Direttore della Caritas diocesana di Napoli